Donne in ombra o ombre di donne?
Di Tatiana Pellegri-Bellicini
Mamma un fantasma nero, ha gridato mia figlia quando aveva tre anni, un bellissimo pomeriggio d’autunno. Ho risposto che non era un fantasma, ma una donna. Sotto quel vestito c’é una donna, una mamma come me, la mamma di quella bambina che dondola sull’altalena. Non potrò mai dimenticare quel pomeriggio, perché adesso che sono passati dieci anni e mia figlia va in giro con una cascata di capelli castani e bellissimi che sono il suo orgoglio, quella bambina sarà nascosta dallo stesso vestito che ricopertine/copriva la madre, il burqa, l’abito che nasconde quasi interamente il corpo delle donne afghane. L’unica concessione in quel tessuto pesante è una grata esagonale che si apre all’altezza degli occhi, cucita sopra la stoffa, per poter respirare e intravedere piuttosto che vedere. È così lungo che è difficile camminare senza incespicare.
Ricordo di avere pensato che se il chador, che viene tenuto per i lembi in maniera da lasciare scopertine/coperto un varco per gli occhi delimita il volto delle donne come una sorta di cornice colorata e preziosa, il burqa è una prigione che soffoca l’anima e il corpo.
Le restrizioni imposte dai talibani alle donne, non si limitano al burqa. Le donne non possono esercitare una professione fuori casa, solo poche donne medico e infermiere possono lavorare in alcuni ospedali. Non possono avere delle attività all’esterno della loro dimora se non sono accompagnate da un parente stretto, il padre, il fratello, il marito. Non possono trattare con i negozianti maschi, non possono essere curate da medici uomini, non possono studiare nelle scuole, università o altre istituzioni educative. Sono percosse se non seguono le rigide regole dell’abbigliamento o se non sono accompagnate. Sono picchiate se hanno le caviglie scopertine/coperte, lapidate se hanno delle relazioni sessuali al di fuori del matrimonio. Non possono usare cosmetici, non possono parlare o dare la mano a uomini che non fanno parte della famiglia. Non possono ridere ad alta voce, non possono indossare i tacchi perché il rumore dei passi può suscitare dei pensieri impuri negli uomini. Non possono apparire in televisione, radio o luoghi pubblici, non possono praticare sport. Sono stati modificati tutti i nomi di luoghi che avevano incluso la parola donna. Le finestre delle case sono dipinte affinché non sia possibile uno sguardo dall’esterno, non possono uscire sul balcone delle loro case. I sarti uomini non possono cucire indumenti femminili. Le donne non possono frequentare i bagni pubblici, possono viaggiare solo in bus per donne, non possono filmare o fotografare. E fotografie femminili non possono essere appese alle pareti delle case o dei negozi oppure pubblicate su giornali o libri. Le regole sono queste e tante altre, ma il burqa le riassume tutte. Ne è il simbolo, rappresenta la condizione di oppressione nella quale vivono le donne afghane, rappresenta l’anonimato, l’annullamento della persona.
L’attacco USA non ha fatto che peggiorare una situazione già molto difficile, quasi invivibile dopo 10 anni di occupazione sovietica e la salita al potere dei talebani, gli studenti di teologia che si propongono come i paladini della moralità islamica ma che applicano delle regole medievali che sono ben poco islamiche. Milioni di persone affollano i campi profughi, migliaia di vedove sono costrette a mendicare per vivere poiché non possono lavorare, tutte le donne sono state licenziate in blocco. Eppure sotto quei veli ci sono dei pensieri, sotto i pesanti drappeggi alcune donne si sono organizzate, e hanno creato movimenti e associazioni per la loro emancipazione. Istituiscono scuole segrete nelle abitazioni, assistenza medica itinerante, persino saloni di bellezza clandestini, una sorta di resistenza o rivolta sotterranea.
Il silenzio che è loro imposto alimenta il desiderio che le loro figlie abbiano un destino differente, le spinge a cercare di organizzarsi, a prezzo della vita. Le donne che sono riuscite a fuggire non rinunciano ad aiutare il loro popolo, rischiando la vita ogni giorno. Quel sarcofago che seppellisce la donna, è stato utilizzato per scopertine/copi opposti: mantenere i contatti con le persone che non hanno potuto fuggire e necessitano di tutto, dall’assistenza medica all’alfabetizzazione. Ho letto una testimonianza di una donna che sorridendo affermava che proprio sotto il burqa, che le rende tutte uguali riescono a fare entrare in Afghanistan libri e pubblicazioni. Ci vogliono fantasmi? I fantasmi passano attraverso i muri, figuriamoci le frontiere.
E adesso che mia figlia è grande che non teme più i fantasmi, che comprende e utilizza la parola, possiamo capire insieme che il popolo afghano non è costituito da terroristi, sono persone che desiderano soltanto una vita tranquilla, e poco hanno a che vedere con la lotta di potere, ma che subiscono le contingenze. Il burqa simbolo del silenzio e dell’oppressione, che vuole cancellare le forme umane, e l’età, avvolge le donne come un sudario. In una manciata di anni in Afghanistan è stato fatto un balzo all’indietro di secoli, le conquiste realizzate dalle donne, il lavoro, l’istruzione, sono state cancellate con un semplice colpo di spugna senza dare l’importanza alla memoria storica, alle conquiste realizzate poco alla volta. La donna è ritornata ad essere l’anello debole e sottomesso della lunga catena umana, il paradosso è che da sotto l’abito che le ricopertine/copre, da dietro la grata che le nasconde, alcune donne afghane rifugiate nei campi profughi in Pakistan, utilizzano la posta elettronica e le pagine web per farsi conoscere nel mondo intero. E allora il silenzio di tutte le altre diventa potente, diventa eloquente. Quello che noi possiamo offrire è soprattutto una rispettosa solidarietà.